Da quando lo storico marchio fiorentino è stato acquisito dal colosso del lusso LVMH sta vivendo una rinascita: ricavi raddoppiati in due anni e aperture di nuovi flagship in programma nei mercati emergenti.
Le ragioni della svolta di un brand che stentava a decollare a livello globale sono nelle parole pronunciate dal CEO, Alessandra Carra: “La famiglia è custode del patrimonio culturale, mentre Vuitton, con le sue dimensioni, favorisce lo sviluppo e tutto il sostegno possibile”.
Prima che Vuitton scommettesse su Pucci acquisendo il 100% del pacchetto azionario, il fatturato non superava i 50 milioni di euro e la società faticava a penetrare nei mercati emergenti del lusso, soprattutto in Asia. Il colosso francese sapeva bene però che, integrando il know how storico del produttore fiorentino con la propria solidità finanziaria e liquidità economica, i propri canali distributivi, l’esperienza globale, oltre all’inserimento di un management estremamente qualificato e con background internazionale, il brand avrebbe preso il volo. E così è stato.
Il caso di Pucci rispecchia bene le principali problematiche delle imprese italiane che faticano a raggiungere nuovi mercati stranieri: le dimensioni e la mancanza di management competente. Rispetto ai suoi principali competitor europei – Francia, Germania e Regno Unito – l’Italia presenta il numero maggiore di imprese di piccole dimensioni. Una ricerca condotta da Banca d’Italia ci ricorda che “più piccola è la dimensione, più difficoltoso è sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’attività di ricerca e sviluppo, l’innovazione, l’accesso ai mercati esteri”.
Avere prodotti invidiati e apprezzati in tutto il mondo ed essere in grado di valorizzarli: questa è la scommessa vinta da Emilio Pucci, Fendi, Bulgari, Loro Piana, Pernigotti ma anche da molte piccole e medie imprese che hanno fatto affidamento su capitali stranieri e management orientati alla globalizzazione mantenendo allo stesso tempo ben saldo know how e identità italiani.
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